Archive for February, 2011

Oppure moriremo mezzadri

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Piero Fassino ha vinto le primarie del Centrosinistra a Torino. Ora mi chiedo che campagna elettorale farà. Correrà alla ricerca dei voti cattolici? Cercherà di far breccia in centro e sulla collina? La mia sensazione è che a Sinistra esista una prateria abbandonata. Se Gianguido Passoni e Michele Curto, divisi e poco visibili, sono riusciti a mettere insieme sedici voti di coalizione su cento, è segno che il lavoro, l’ambiente, la cultura, i diritti e la giustizia sono un terreno fertile. Ma il venir meno della candidatura di Giorgio Airaudo quel campo l’ha congelato. Ora serve coraggio. Oppure moriremo mezzadri.


Aprono voragini di pioggia

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Le strade non si asfaltano più. Aprono voragini di pioggia. Ardono sbriciolate al sole. Evocano la rabbia dei tranvieri, la ferma agonia spinale delle vecchie. Tutto si ferma attorno ad una figura coperta dal velo del mito. Lo stradino avanza impreciso su un’ape arrugginita. Si stende ansioso attorno al clamore di un buco, ripiana veloce con una toppa calda; la colora con un soffio di catrame. Poi rimbalza felice fra le docili sabbie di un marciapiedi. Io guardo a terra incredulo. Pozze di acqua marrone riflettono il verbo pubblicitario: un festino per uomini potenti strappa le pieghe impudiche dell’intimo femminile.
Torino

->Andrea Alessandretti – Torino<-


Viale alberato

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Mi appoggio stremato ad una panca. Viale alberato. La scena di una non dichiarata rivoluzione. Lordi papponi mangiano sulla pelle soffocati da un ricircolo d’aria. Galline appassite calpestano gli occhi degli immigrati. Sollevano il peso di scintillanti lamiere tedesche fra tessuti ingioiellati. Terroni ed extracomunitari si contendono disincantati le sedie di un bar investito dal fango televisivo. Ecco, sono arrivati gli amici. Ci rifugiamo in un antico ristorante. Barbera e Nebbiolo liberano la voce e lo spirito. Affogo felice fra salcicce e cotiche. Lecco il fondo di un tegame di riso caldo. Cammino al buio, fra miti sapori di castagne.


E’ un turbine di parole

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Sonia mi ha sopreso fra le pieghe di un cono gelato. E’ un turbine di parole. Gli occhi attraversano il mio immobile imbarazzo. Mi trascina in una passata identità. La inseguo in una boutique deserta. Racconta note oscure. E’ un viaggio per me impossibile oltre il limite di una collina. Mi aggrappo al suo affetto. All’inspiegato desiderio di ricostruire un legame. La distanza si corrompe in pulsione. Cammino lungo una linea spezzata. Euforica delizia. Mi abbraccia celando un desiderio. Ricordo un passato litigio. Ne vorrei riscoprire la misurata violenza. Il tempo ha violato la nostra intimità. E’ scomparsa nel vuoto.


Corrono al bagno

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Attraverso un eterno consesso. Mi alzo sfinito fra uomini vecchi. Corrono al bagno. Devono sfogare la prostata. Mi guardo consumato, e rifletto sulla mia stessa decadenza. I capelli si diradano, l’antico vigore si assopisce. Ho perso gli occhi su lastre di vetro riflesso. Ho consumato anni accumulando sapere. E oggi avverto, insostenibile, il lento richiamo della terra. L’urlo dei vermi che divorano il sottosuolo. Io sono l’inaccettabile sensazione di avere semplicemente fortificato la tirannide. Ogni mio gesto di irriquieta ascesa sociale, ogni mia battaglia per un’intima sonnacchiosa giustizia non sono stati che vezzi narcisistici. Inefficaci parodie di una lotta disattesa.


Impotenti belve razziste

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Li temono, perché sanno che verranno. A migliaia, colmi di coraggio e voglia. Cacciati dalla povertà, finalmente liberati da un muro che ci era invisibile. Assetati di giustizia, ricchi solo di speranza. Troveranno sguardi torvi, parole di disprezzo. Le stesse che oggi ascoltiamo per strada: il dittatore ci faceva comodo, con lui abbiamo fatto affari. Ma lo scatolone di sabbia si ribella: non si accontenterà dell’autostrada dei figli dell’impero. Costruirà un ponte di barche, lo legherà con corde di uomini. E ci abbraccerà di rabbia. La primavera dell’Africa è l’autunno del nostro dispotismo. Il loro pianto inutile. Impotenti belve razziste.


Esco dal tubo

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Labbra cosparse di fumo solcano il nudo argento del tuo volto. In un racconto di luna piena ho ritrovato la memoria di una rivoluzione consumata attaccato al tuo seno. La notte rigurgita i tiranni, e mi lascia all’alba sanguinante di te. Esco dal tubo. Scalo la nebbia. Siedo sui tetti spogli, appoggio il culo sulle soffitte rigonfie di immigrati clandestini. Odoro una voce di parquet e rose appassite. Sono biscotti ammuffiti al ritorno da un viaggio. Un affetto che non capivo: eppure già metteva a ferro e fuoco le mie certezze. Era il sintomo di un desiderio che oggi appago.