Ero figlio di operai
Spenti sonagli. Tamburi bucati. Un direttore d’orchestra mi riconduce ad antichi traumi infantili. Nel sotterraneo d’una chiesa mi sforzavo tenacemente d’imparare a suonare le corde. Non guadagnavo che il distaccato sguardo dei devoti. Ero figlio di operai. Non degno dunque di taluni discorsi. Accarezzavo esile il corpo di una chitarra molle e distorta. Il prestito lacrimevole di un parente ricco. La musica mi respingeva, offesa dalla povertà del mio orecchio. Immerso in tanta francescana esclusione, maturavo desideri di riscatto sociale. Cominciavo a nascondermi infreddolito fra pareti ricolme di libri. Senza comprarli. Ora vanto il mio ateismo. E rimpiango la musica.