Certo, chi ha commesso un furto deve essere punito. Eppure, era in attesa di giudizio l’uomo che si è impiccato con un lenzuolo nel Carcere delle Vallette. Eravamo quasi coetanei, lui ed io. Io mi sono dato un nome rumeno, lui ne aveva uno vero. Era scappato da un paese povero, mentre io sono nato in un paese che si sentiva ricco. Il suo sogno di prosperità si è scontrato con una povertà di ritorno. Mentre moriva, noi giocavamo a carte. La carcerazione dovrebbe rendere gli uomini più nobili. In queste condizioni, invece, ho l’impressione che renda noi più cinici.
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Su Repubblica, un’inchiesta di Enrico Bellavia e Lorenzo Tondo apre uno squarcio sui venditori di rose di Palermo. Giovani deportati da Bangladesh e Sri Lanka col sogno di studiare. Adottati dagli sfruttatori, costretti a vendere sessanta rose in cinque giorni. In cambio di vitto e alloggio. I parassiti pagano il pizzo e costruiscono residence per stranieri in patria. Lo sappiamo tutti che il problema non è siciliano. In ogni città d’Italia il gioco si ripete. Le strade di Torino, di notte, sono gonfie di vecchie biciclette che trasportano rose. Che fare? Municipalizzare questo servizio, forse, ne annullerebbe la domanda.
La polizia irrompe in uno stabile di Corso Giulio Cesare, a Torino. Quartiere Aurora. Quaranta alloggi. All’interno, una folla di immigrati – e un paio di italiani – vive nel’immondizia. E’ sufficiente guardare queste foto per capirlo. Sono brasiliani, tunisini e marocchini. Ventisette fra loro sono clandestini. A leggere il giornale, ognuno pagava dai duecento ai quattrocento euro. Al mese? Non lo sappiamo. Ma dove andranno, adesso? Il proprietario del palazzo incassava dalla sua casa, in collina. E’ di fronte a questo che non riesco a chiudere gli occhi. Il berlusconismo non è finito: non era che lo specchio dell’Italia.
La questione è rilevante. Si può stare a volto coperto in tribunale? Un’interprete di religione islamica che indossava un velo durante un’udienza è stata allontanata da un’aula del Palazzo di Giustizia di Torino. Si tratta di una grande occasione per verificare cosa dice davvero la legge. E’ bene che il Consiglio Superiore della Magistratura si pronunci: avremo un quadro più completo. Il punto sta anche nel definire cosa si intende per capo coperto. Suppongo che in un simile contesto ciò che conti sia rendersi riconoscibili. Su questo penso che non si possa transigere. Poi va bene. Ben venga il velo.
La scatola parlante riesuma la faccia dimenticata di Breznev. Scendo per strada sotto il primo sole. Il quartiere è deserto. I calcinacci cadono. Il sonno ottenebra tutto, persino la lenta salita alla cella. Mi confino nel lamento della spina dorsale. Una morta agonia chiama da lontano. Sgorga immensa e inaudita da un carcere finto. Non ospita delinquenti, ma semplici migranti. Uomini senza carta. E’ scivolata fuori dalla carne. Si presentano nudi, come corrotti da uno sporco macellaio. Arrivano talvolta a cucirsi la bocca per denunciare il loro forzato silenzio. E i giornali non ne parlano. Devono rincorrere i politici locali.
L’aria ribolle di luce. Formiche solcano il legno. Le sedie si colorano di spesse trecce. Le pietre sprofondano sconnesse fra foglie di fico. Una bicicletta si impolvera sospesa su una tettoia. Plastiche ricurve scaldano torbe la ruggine dei balconi. Odore di fumo confonde i sensi. Sebastiano ha un taglio sopra l’occhio. Dice che è stanco, ma si prepara per tornare al Sud. Il cuoco suda felice fra le fiamme di una padella. Avvolge i capelli nel cotone bianco d’una maglietta. Io scruto nel bar, cammino nel cantiere antistante. E mi chiedo quanti alberi siano stati tagliati. Un giorno diventerà museo.
Ecco una storia incredibile. Ifeany, operaio nigeriano che non può tornare in patria. Fa riflettere su ciò che l’Italia è oggi: non un luogo in cui si sogna di vivere, bensì un luogo da cui non si riesce a scappare. Ifeany è ognuno di noi. Aspiriamo ad emigrare in un Paese migliore di questo. Vorremmo campare del nostro. Sfamare i nostri cari. Vedere riconosciuto il merito. Cercare nuova ricchezza da dividere con gli altri. Sapere che tutti pagano le tasse e si impegnano per il bene comune. Invece no, assistiamo impotenti a fabbriche che chiudono. E a papponi che fottono.