E’ l’alba. Non so ancora se Torino ha retto all’ondata di piena. L’ira degli dei. Po, Stura, Dora e Sangone sono statue arrabbiate. Mentre mi accingo a tornare in strada, la memoria affonda nel 1994 e nel 2000. Negli ultimi venti anni abbiamo continuato a consumare territorio. Viviamo ogni anno la nostra stagione dei monsoni. Se non altro, abbiamo imparato ad organizzarci. Ovvero, non sono così stupido da pensare che ieri Twitter abbia salvato la città, ma mi illudo che in queste ore l’hashtag #allertameteoPM abbia contribuito a trattenere alcuni fra le pareti di casa e lontano dai ponti. Coraggio, si riparte.
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Il partito del cemento piange lacrime di coccodrillo. Non ha mai smesso di riempire le casse dei Comuni a suon di oneri di urbanizzazione. Continuerà a ungere come ha sempre fatto. Si è giovato di condoni edilizi, ha potuto violare sistematicamente le leggi che proteggono il suolo. Nelle private stanze già smette i finti panni del lutto per fregarsi le mani. Ciò che fiumi e montagne portano via dovrà essere rimesso a posto. E’ come una guerra. Ad arricchirsi sono gli infami. Ma noi, ci faremo fregare un’altra volta? Passeremo dalla commozione all’apatia della distrazione? Intanto, l’acqua continua a salire.
->Calogero D’Angelo Favata – Turin<-
Arrendetevi. Le forme della percezione stanno cambiando. Non potete rincorrerci con la carta. Noi la attraversiamo di corsa. Preferiamo i sacri rotoli degli antichi, le tavolette coperte di cera su cui scriveva lo scolaro Orazio. Non potete imporci un mondo di regole che non ci appartiene più: avete perso l’oggetto stesso che ne motivava l’esistenza. Piace anche a noi sfogliare i libri, ma non potete offendervi se troviamo noioso il vostro modo di scrivere. Pensate forse che Dante, Shakespeare e Cervantes facessero come voi? La consapevolezza del passato serve per rompere i canoni del presente. Siamo esausti della vostra tristezza.
Era stato un carabiniere. A guerra finita, era tornato a zappare la terra. Studiava la notte, incapace di dimenticare un’intelligenza violentata dalla povertà. Preparò silenziosamente un concorso in ferrovia. Solo fra i non diplomati, lo vinse. Avrebbe voluto studiare dell’altro, ma a casa le bocche da sfamare erano tre. Finito il lavoro, tornava alla terra. La zappava recitando poesie e bestemmie. Beveva caffè nero. Sedeva in canottiera sulla statale, riposando esausto un quintale di muscoli e cervello. La sua voce tuonava fino al mare. E ai tedeschi che gliene chiedevano la strada, indicava un luogo indefinito, in direzione di Cuneo.
Alzo la testa oltre le mura della città. Le élites dei grandi ricchi sembrano aver dichiarato guerra al mondo intero. Cina, Brasile e India non sono più deboli e sfruttati: chiedono il conto e pretendono ciò che noi abbiamo. I rapporti di forza stanno cambiando. Cosa fanno le poche famiglie che controllano i sistemi capitalisti? Si chiudono a Versailles. Basterebbe poco: esigere austerità per i conti pubblici e concedere riforme capaci di creare nuova ricchezza, ridistribuendo le rendite parassitarie ai settori più dinamici di ogni società. Ma non sono disposti a farlo. Fomenteranno la violenza di piazza. E nuovi dittatori.
Accarezzo una matita. Ha il sapore colorato di una brezza affogata sotto braghe corte. Il sole ha spogliato la polvere dei tetti. Il vetro dipinto di una cartoleria. Annuso secoli di righe spezzate. Inchiostro acido sulle narici. Toppe cucite su pelle candida. Hanno il gusto di un pavimento peloso. La vecchia scuola un bianco timone sul ponte di una nave grigia. Corro azzurro oltre la strada. Annuso i fumi di una fabbrica. Abbraccio nudo il campanile diroccato. I miei occhi scrutano il marciapiedi. Vermi arrotolati leccano rivoli d’acqua. L’estate correva lunga quanto il resto dell’anno. Era un ticchettare di polpastrelli.
Torme di madri piangono l’ennesimo cantiere. Attendono trepidanti una nuova settimana. Lamentano l’inattesa deviazione di un autobus dal sentiero abituale. Una secolare inefficienza ci ha fatti tutti conservatori. Ecco, dice una, ho dovuto scavare a lungo nella rete, per trovare la nuova mappa. L’hanno nascosta. Hanno paura di noi. E’ vero, è vero, gridano le altre. Nel frattempo, la città continua a respirare di nuda immobilità. Neri, maghrebini e slavi sprofondano sotto terra, lavorano al buio fra bagliori elettrici. Uno di loro si alza impaurito, fugge e si ubriaca. Si spinge sino alla periferia, scende dall’autobus. E insegue follemente qualcuno.
Carni. Mucose di vacca appese ad un piatto. Calore intermittente, caffé corretto. I fratelli arabi si assiepano in un bar. Vivono isolati in un paesello sulla collina. Avanposto settentrionale del Maghreb. Si scambiano sorsi di té fra gli italiani ubriachi. Un gruppo di giovani si consuma nel monotono clamore dell’elettronica. Io cammino a piedi nudi sul terriccio. Una lapide ricorda i morti di Russia. Mi addormento in una forca di sangue. Sono fermo in una vecchia zona industriale. La solitudine mi avvinghia con spietata passione. Cerco inutilmente le radici dell’erba. Deglutisco vino acido. Risalgo le coperte e dormo. Non sono.
L’aria ribolle di luce. Formiche solcano il legno. Le sedie si colorano di spesse trecce. Le pietre sprofondano sconnesse fra foglie di fico. Una bicicletta si impolvera sospesa su una tettoia. Plastiche ricurve scaldano torbe la ruggine dei balconi. Odore di fumo confonde i sensi. Salvatore ha un taglio sopra l’occhio. Dice che è stanco, ma si prepara per tornare al Sud. Il cuoco suda felice fra le fiamme di una padella. Avvolge i capelli nel cotone bianco d’una maglietta. Io scruto nel bar, cammino nel cantiere antistante. E mi chiedo quanti alberi siano stati tagliati. Un giorno diventerà museo.
Sognamo di arricchire. Ermanno liscia la pancia mormorando acuto. Gustavo mi guarda con maggiore disillusione. Una bottiglia di grappa ferma sul tavolo esprime la dura sentenza. Non vogliamo lavorare per tutta la vita. O meglio, stiamo cercando un senso in ciò che facciamo. Dubbi fiscali, certezze contrattuali. Sospinti dal sogno cerchiamo la nostra nicchia. Ormai, non resta che questo. Trovare uno spazio residuale. Chiudersi nel silenzio irrequieto di un proprio microcosmo. Nulla di materiale. Per vivere bisogna vendere idee. E su tutto un dubbio: essere sconfitti dalla mediocrità. Sarebbe meglio aprire un bordello cinese. Non resta che arrendersi. Resteremo poveri.