Lasciai Torino quando scoppiò la guerra civile. Avevo fame, ero disoccupato e per combattere ero troppo vecchio. Convinsi le mie figlie che un giorno mi avrebbero raggiunto al di là del mare. Partii di sera, in treno. Cercai di confondermi con i soldati che muovevano verso Sud. A Napoli mi nascosi nei pressi del porto. Gli scafisti della Camorra ci chiamarono il giorno dopo. Ci infilarono in un container, come sottaceti in un barattolo. Arrivammo a Tunisi all’alba. Era stato un viaggio massacrante, ormai ce l’avevamo fatta. Finalmente ero libero. Di essere segregato in un centro di identificazione ed espulsione.
Archive for March, 2011
Giuliana mi attende sotto la pioggia. Si affretta seria verso un ristorante affollato. Orde di turisti circondano la nostra intimità. E’ un lungo riavvicinamento. L’antica ruggine pare essersi dissolta. Ha scritto parole intense, che grondano emozione. Provo a raccontarle di me stesso. Mi incuriosisco del suo vissuto. Da mesi non lo lambisco. Ha abbandonato la politica, è rientrata in se stessa. Ora mi appare più matura e sapiente di quanto già non fosse. Non nasconde una comprensibile fierezza. Ci riconosciamo ancora una volta. Fiori non sbocciati. Membri disillusi di una generazione tradita. Siamo calici colmi di vino. Morte parole lucide.
E’ piccola, ma è una bella notizia. Noi amiamo il pazzo sferragliare dei tram. E ci piace l’idea di un cerchio chiuso. A difesa della città. Perché potrebbe contenere i lati di una immensa isola pedonale: Porta Nuova, Piazza Castello, Porta Palazzo, Porta Susa. E’ quasi l’antico perimetro del Seicento. Vorremmo che un giorno fosse il bordo dei nostri piedi. La nuova linea 7 è un dolce piacere. Resta il sogno proibito di vedere i vecchi tram in funzione per sempre, anziché fino a novembre. Qualcuno dirà che Torino non è San Francisco, ma perché no? Anzi, forse è anche meglio.
Ombra trasecolata di una morte elettrica. Albore stesso della decadenza. Rincorsa volontà di argenteo disincanto. Sono figlio di un secolo ucciso. Non posso gioire completamente. Il cammino si spezza fangoso sul cerchio di una macchina. Lì è sepolta una fatua memoria, il coltello insanguinato della volontà. Scrivere, significare. Senza desiderio. Impossibile piangere sui titoli di coda. Fabbricare emozioni per credere in se stessi. Seno perduto sotto una lampadina fulminata. Filo di tungsteno ormai reciso. Attraversa il vuoto per farsi raccogliere. Scava sotto la pelle. Cerca un’anima straniera. Nasconde il disprezzo. Sopporta l’arroganza. E’ sonno disfatto d’alcool. Un amico senza volto.
Se è per ragioni fiscali che la FIAT si appresta a trasferire la propria sede negli Stati Uniti – il dubbio è dovuto – ciò significa che si è perso completamente il senso di appartenere ad una comunità. Agli albori dell’industria, pur affondando le mani nel paternalismo, gli imprenditori disponevano di questa fierezza. Fare soldi significava far crescere il territorio. Svilupparlo per creare ricchezza da redistribuire localmente, almeno in parte. Oggi pare che non sia più così: si investe alla cieca, puntando il denaro su una roulette. Ma è proprio questo che segna la differenza fra essere industriali ed esser finanzieri. Ripensateci.
->Smallmind – Fiat 600D 1965 #01<-
Ha racchiuso il seno in una risollevata stretta. Osserva il mio sguardo cadere incontrollato nella spaccatura violenta che reca sul petto. Esitazione e rabbia si fermano in una frase interrotta. La sua mente è lucida. La mia gola è secca. Teorizza l’assoluta conquista del mondo. E’ la voce cosciente di un popolo addormentato. Nasconde una bandiera rossa dietro occhi immobili. Svagatamente disperde il sapore di un’eco americana. Io sono il polmone malato di mio nonno. Attraverso l’oceano tenendola per un braccio. Rivedo il suo nome sul muro di Ellis Island. E la sogno invocare. La bellezza ingrata del mio Paese.
I referendum alla FIAT di Mirafiori e Pomigliano, secondo alcuni, erano casi a sé stanti. Anche per questo, dicevano, era opportuno votare sì. Ebbene, oggi chi lo affermava viene clamorosamente smentito. La vertenza in corso alla ex Bertone dimostra, invece, che quei due referendum finiranno per ridefinire i rapporti di forza fra capitale e lavoro nell’intero settore, se non nell’intero sistema industriale del Paese. Per quanto la battaglia sia difficile, la FIOM fa bene a resistere. Ciò, infatti, non farà che evidenziare il principale limite di quei referendum: l’estromissione dalle fabbriche del sindacato più rappresentativo dei lavoratori. Viva la democrazia.