La punta iq option della penna volge altrove. Non è tempo di imbrattare ancora queste carte, bisogna imparare piano piano a riguardarle per rimetterle al loro posto. Per tre anni Torino Anni ‘10 è stato il mio orizzonte, il prisma con cui percepivo la realtà. Non so se la scrittura abbia un potere terapeutico, ma qui ho ricominciato a vivere. No, non sono guarito: continuerò a sfogare la mia malattia altrove. Qui è nata twitteratura.it, che ora richiede tutto il mio impegno. Soprattutto, qui io ho ritrovato me stesso: da domani il mio pseudonimo resta confinato. Ma non smette di parlare iqoption.
Verande chiuse. Per non guardarci dentro. Probabilmente abbiamo cominciato a costruirle per questo. Escludere il proprio vicino e vincerne l’oppressione. Io ricordo gli spazi angusti dei balconi, con i piccioni che ci cagavano sopra, la neve che si sporcava di smog e il volto pallido della città vista attraverso le finestre. Quanta luce ci iqoptions hanno tolto queste maledette verande, sono diventate il simbolo di una società e di una città ripiegate su loro stesse. Chiuse nella contemplazione di un interno che alla fine le ha private del futuro, senza farne poesia. Ora il coraggio cosa vorrebbe? Che le abbattessimo tutte.
Torino funziona ancora. Nelle alberate dei viali, lungo i corsi in cui traffico scorre invecchiato. Sugli autobus che portano borghesi piccoli e impoveriti al lavoro. Sui gradini delle botteghe di periferia, dove un ubriaco si siede a bere un cartoccio di vino. Noi torinesi siamo fabbriche. A dispetto di tutto, la comunità di immigrati vecchi e nuovi che abita qui continua ogni giorno a chiedersi quale sia il suo dovere. Impoverendosi, la città per ora ha saputo reggere al disastro. Il dolore con un sussulto di dignità resta privato. Per avere un futuro non basta, ma la tempra è forte.
L’autoambulanza giace ferma sulle rotaie. Una vecchia automobile ostruisce l’altro lato della strada. L’autobus si ferma dietro all’ambulanza. Le auto si incolonnano dietro alla targa in doppia fila. I clacson gorgheggiano nel traffico della sera. Un uomo esce dal bar con il telefono all’orecchio. L’autista vorrebbe scendere per menar le mani. L’auto in doppia fila non si muove: aspetta che un altro veicolo, parcheggiato su un passo carraio, tolga il disturbo. Il proprietario finge di non trovare le chiavi. L’ambulanza non si muove. Io urlo dietro i vetri dell’autobus. Scendo e proseguo a piedi. Un cantiere ostruisce ogni altro passaggio.
Sotto casa di Arpino ci andammo a mezzogiorno. Una donna uscì trafelata dalla scuola, ma quando ci vide si fermò. Si allungò oltre le staccionate divelte, cominciò a raccontare sullo sfondo di molli immondizie. L’epopea del capitalismo illuminato le era rimasta sulla pelle, sin da quando – bambina – nel villaggio Leumann era nata e cresciuta. I due corpi di case costruiti ai lati del cotonificio, le bealere che separavano l’abitato dai campi. Una chiesa cattolica dall’architettura protestante, un teatro sottoposto a benevola censura. E uno spaccio in cui consumare una moneta a circolazione interna. L’innovazione sociale. Una volta c’era.
Sotto l’Arsenale. Ci fermammo infreddoliti. Mentre lei si poggiava a me, io cercavo di ricordare cosa sapessi di Carlo Emanuele III. Mi venne di chiedermi perché, nella città in cui ero nato, la presenza dei militari fosse imponente e nascosta. Era come se Torino volesse dirmi che la bellezza più altera dovesse restarmi segreta. Accarezzammo le pareti dell’edificio, i piedi galleggiavano sul ghiaccio. La quiete borghese della notte tradiva le ferite aperte dalle artiglierie. Lì, sotto le armi che davano nome alla via, ci rincorremmo senza guardarci. Ogni passo era una pietra lunga e imbrunita. Un brivido mi corresse, respirai.
La famiglia Ligresti. Se fosse una fiaba, diremmo che i figli del re del mattone godono sempre di buoni manovali. Salvatore Ligresti è uno dei principali protagonisti della speculazione edilizia che da decenni soffoca Firenze, Milano e Torino. Le condanne per Tangentopoli lo costrinsero a cedere gli incarichi aziendali ai figli. Dei tre, Jonella divenne celebre per una laurea honoris causa che durò un giorno. Paolo scoprì di essere svizzero pochi giorni prima che la magistratura ne chiedesse l’arresto. Giulia è stata sollevata dal peso della carcerazione preventiva dopo l’intervento umanitario di un ministro. Ognuno misuri l’opportunità politica come può.
->Padri coraggiosi<-
Mi fregò così. Dicendomi che era appena diventato padre. Aveva un sorriso largo trentasei denti. E’ una figlia in Senegal. Cominciò a rivestirmi di contentezza: un braccialetto, un piccolo elefante portafortuna, una coccinella di plastica. Era tutto cominciato con una richiesta inutilmente ingenua: che ore sono. Poi aveva detto di aver apprezzato il mio sorriso. A quel punto era calata la domanda: dammi qualcosa, non ho ancora venduto niente. Gli allungai una banconota mentre chiedeva di me, se fossi sposato e cosa aspettassi a fare un figlio. Lo facesse tutti i giorni, pensai. In ogni caso era un piccolo genio.
->Occhi sul cielo blu<-
Scontro di civiltà. Non c’è spazio per i negri nella città che loro vorrebbero. Immaginano una Torino che non c’è più, fatta di piemontesi imbruttiti dalla vecchiaia. Uomini egoisti che discutono sulla panchina, donne sole che corrono in chiesa nel freddo del mattino. L’ordine, la quiete del pensiero unico: il piacere vizioso del conformismo. Una città in cui si parla il dialetto, e in cui è facile additare qualcuno come ‘napuli’. Gli immigrati meridionali, per loro, sono animali addomesticati. Preziosi alleati, cani da scagliare rabbiosi contro i maghrebini, più razzisti dei razzisti perché si erano emancipati dall’emarginazione. E ora sprofondano.
->Alba in piazza Solferino<-
Due marocchini abbracciati. L’uno dà il bentornato all’altro. Si rincorrono sotto le ali di un piccione. Un ubriaco piscia su una bicicletta e sul suo palo. Io aspetto con imbarazzo, non mi ritrovo in un luogo che sentivo mio. La stanchezza è troppa, il sudore mi macera la schiena. Gli amici sopraggiungono distrattamente. Non mi riesce di mangiare. Contemplo gli infiniti discorsi del tavolo accanto. Sfondo il banco con il capo, poi mi riprendo. Comincio a sgattaiolare fra un angolo e l’altro. E mi dileguo, stanco e debilitato. Non mi ricordo come facessi a trascorrere tutte le notti laggiù.
->Non c’è più niente da dire<-
Nei cunicoli parlanti. Scesi a fatica, poggiando il ginocchio sulla parete. Quei marmi sfiniti degli anni cinquanta parevano sbeccati, macchiati di sudicio vecchio. Nei corridoi, le luci al neon sfogavano una noia asciutta sugli occhi di un’impiegata. Taceva, forse perché la vita le scorreva addosso in un sotterraneo. Mi avvicinai, palpitai per un suo scarabocchio, poi mi buttai in una stanza buia. Un uomo bofonchiò qualcosa, cercò di essere simpatico annunciando una mesta disgrazia. Fuori dalla porta, su una sedia, un donnone dal seno gigante mi sorrise di labbra gonfie. La osservai meglio, nascondeva sotto le lenti un pensiero lussurioso.
->Rovinando abbasso<-
Elenco senza voce. Fa sorridere come l’edizione torinese on line di Repubblica ieri mostrasse la lista delle trenta personalità eminenti che avrebbero sottoscritto un appello a favore della costruzione del TAV Torino-Lione. Nell’articolo non c’è il testo dell’appello, fra i sostenitori ci sono manager e politici che da tempo sostengono l’opera insieme a qualche carneade. A che pro? Occupare il sito del giornale senza formulare un solo argomento a favore dell’opera. Il TAV costerà alcuni miliardi di euro: quei soldi andrebbero spesi per far nascere nuove imprese, ma i costruttori della ferrovia veloce non lo accetterebbero mai. Vivono nel passato.
->Culetto francese<-
Le strade insicure. Alla fermata dell’autobus due uomini contrattano il prezzo della refurtiva. Io non posso fermarmici, mi pare che mi osservino. Mi inerpico sull’asfalto, passo sotto impalcature immobili. Le auto sfrecciano impietose, un ragazzo nero le schiva sulla bicicletta. Non incontro facce rassicuranti. Il mio vecchio quartiere è diventato un serbatoio del voto leghista. La destra cresce a mani basse: prima sputa sugli immigrati, impedisce di risolvere i problemi dell’integrazione sociale; poi li scatena contro i riformisti per drogare l’elettorato. E continuare ad ucciderci. Alimenta la povertà per usarla contro i poveri. Ci segrega così, di giorno in giorno.
->Chiari di luna<-
Correvo nottetempo. Attraversavo filari insidiosi di viti arrugginite. Avevo nella mente il volto di un ceffo rossastro. Si era gonfiato di caramelle per un paio d’anni. Ora il suo grasso strabordava dalla camicia e ci carezzava quando sedevamo. Era amico di tizio, parente di caio. Ciò lo faceva assai fiero di sé. Eppure una lunga disperazione lo coglieva: veniva escluso dal tavolo dei potenti. Era come se gli dicessero che formalmente era importante, ma nella sostanza non contava nulla. Del resto, era proprio così. Si nutriva dell’inevitabile vendetta che fa di un figlio di mamma un essere solo e vinto.
->Non voglio l’inverno<-
Il mare è tornato. A coprire la città. Risale limaccioso di terra la conca di Borgo Dora. Si sfilaccia di mille rigagnoli blu. E’ impolverato come un seme che non dà frutto. Le biciclette lo solcano in superficie. Un battello a vapore ne attraversa la corrente, come se fosse adagiato su un letto troppo largo. Io svicolo negli attriti del silicone. Ritrovo il volto di un amico a cui non rivolgo più la parola. Lui mi guarda, insiste per stringermi la mano. Ma io so che è sporca: della donna che mi tradì con lui. Mi adagio spento, sul gelato.
->Pale ammare<-
La carrozzina no. Una famiglia di immigrati si stringe nella calca, nel mezzo dell’autobus. Il padre raccoglie la voce per esplicitare la difesa di tutti: madre, figlia e neonato in passeggino. Una vecchia dallo sguardo chiaro inveisce contro di loro perché non tollera il veicolo su cui il pargoletto parcheggiato cerca di dormire. Eppure lo spazio non manca. Quattro vecchietti – non si muovono mai soli – le danno manforte. A poco servono le mie frasi. Le spiego che i quattro torinesi del Maghreb hanno il diritto di stare dove sono. Ma è tutto chiaro: lei non ce li vuole.
->Lasciatelo dormire<-
Miraggio olimpico. Nel 2006 il villaggio olimpico di Torino pareva un gioiello. Casette bionde e brune che prima avrebbero ospitato gli atleti e poi sarebbero diventate un modello di integrazione sociale. Dopo quasi otto anni gli impianti olimpici sono diventati un costo che l’amministrazione pubblica non può sostenere e la cui gestione appare opaca, mentre le case degli atleti ospitano i diseredati di cui nessuno si vuole occupare. Nel mezzo c’è stata la crisi economica, ma anche una serie di provvedimenti che hanno distrutto la finanza locale. Ultima, l’abolizione dell’IMU. Siamo nel pieno dell’età barbarica: l’anagrafe si sposterà allo stadio.
->Giocano a palla<-
Lombrosianamente leghisti. Fra cento anni, quando sulle bancarelle di via Po e nelle librerie antiquarie del centro si andrà alla ricerca di cimeli del passato, qualcuno si imbatterà nelle farneticazioni della Lega Nord. Uno studioso musulmano dalla pelle nera si interesserà ai razzisti Bossi e Borghezio con lo stesso divertito disgusto con cui oggi esaminiamo le sciocchezze che scriveva Cesare Lomboso. Nel frattempo, non ci resta che subire l’onta di vedere le strade di Torino piene di nazisti in camicia verde che calpestano i cadaveri dei morti di Lampedusa. Il loro Dio suppongo non esista, altrimenti temo che li fulminerebbe.
->Macchie solari<-
Morte di De Tomaso. E’ la triste storia di una casa automobilistica nata dalle mani di un corridore argentino. Oggi significa 900 lavoratori senza una speranza. Gli ex stabilimenti Pininfarina di Grugliasco, un marchio dal passato inconcludente caduto nelle mani di un imprenditore maldestro. E un epilogo cinese a stabilimento chiuso con venditori italiani in manette per truffa ai danni dell’Unione Europea. E’ il paradigma del fallimento della nazione. Per uscirne bisogna saltarlo: accettare che il settore automobilistico non è il futuro di Torino, ma uno specchio del passato. Sostenere i lavoratori, chiudere le fabbriche. Servono aziende e settori nuovi.
->Siamo al verde<-
La donna cinese. Mi investì in motocicletta, mentre attraversavo in bici un incrocio nella geometria sconosciuta della zona Sud della città. Dopo avermi fatto cadere proseguì diritta, immobile verso il muro di una casa. Cadde accasciandosi rigida su un fianco. Era immobile, pareva una statua. Poco dopo – io ero ancora a terra – venne una ragazza, anch’essa orientale, e provò a piegarla. Pareva che volesse spezzarle il collo. Io cercavo di dissuaderla, di proteggere il corpo che mi aveva ridotto a terra, forse paralizzandomi per sempre. Ma non ci riuscivo. Allora ricordai un giorno, zio fumava la pipa.
->Pensatoio<-