Posts Tagged ‘Crocetta’

La donna cinese

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La donna cinese. Mi investì in motocicletta, mentre attraversavo in bici un incrocio nella geometria sconosciuta della zona Sud della città. Dopo avermi fatto cadere proseguì diritta, immobile verso il muro di una casa. Cadde accasciandosi rigida su un fianco. Era immobile, pareva una statua. Poco dopo – io ero ancora a terra – venne una ragazza, anch’essa orientale, e provò a piegarla. Pareva che volesse spezzarle il collo. Io cercavo di dissuaderla, di proteggere il corpo che mi aveva ridotto a terra, forse paralizzandomi per sempre. Ma non ci riuscivo. Allora ricordai un giorno, zio fumava la pipa.

La donna cinese

->Pensatoio<-


E non fischia il vento

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Umor di sabbia su un muro ruvido. Son giardini cresciuti fra placche di metallo, arrampicati sulla discesa. Fiori accorciati nel vetro, confitti nel cemento. L’inseguimento di una torre guarnita di legno. L’impossibile altezza di un guscio vuoto. I fili irraggiunti dall’obiettivo fotografico. Non sentiero, ma fosso: nuda reminiscenza di scrittori che non seppero vivere in questa città. Cesare Pavese e Natalia Ginzburg discorrono accovacciati sotto un banco di stoffe. Il mercato della Crocetta è un cammino diritto che spinge il cielo dietro corrose statue di pietra. Il futuro che prendo in braccio. Uno zingaro suona Katjuša. E non fischia il vento.


Vende borse, ma non le ama

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I numeri mi schiacciano, mi infocolano gli occhi. Cerco spazi desueti su cui appoggiare una nuda cecità. Una scala mobile taglia le nuvole, dalla sua cima discende un’anima in tailleur. Io mi chiedo se sia incinta. La cosa certa è che non sorride. Manca l’aria, in mezzo al vetro. Per ritrovarla bisogna soffocare su un autobus pieno. Lasciarsi trasportare fra una periferia e l’altra. Per poi ritrovarsi in centro, nel sotterraneo di un palazzo navigante nella nebbia. Una giovane polacca sta nel mezzo delle fondamenta, come emersa da terra. Mi risponde senza sorridere mai. Vende borse, ma non le ama.


Sotto casa di Cesare

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Cola sangue su un’amicizia vera. E’ il dissapore di un amore non vissuto. Si tinge di un verde opaco fra unghie rotonde. Sorride di spuma al grido di una chitarra. Ha la ramata bellezza di un cane dissepolto. Mi riconduce immobile al senso di un viaggio. Non so dove s’arresterà, ma nei suoi occhi ho ritrovato la traccia della mia inquietudine. Il grido disperso di un uomo ribelle. Si spegne sul fiume la nostra ebbrezza. Abbiamo cercato il diavolo sulle colline. Sono trascorsi ottant’anni, troppo in fretta. Le nostre pulsioni sono le stesse. Insieme le cerchiamo. Sotto casa di Cesare.


Ma non se lo sente

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L’ometto rapace si riempie le tasche di soldi. Aggrappato alla schiena di due vecchi ne prosciuga la saliva. Scorrazza gagliardo su biglie di ferro. Andando schiaccia i miserabili che non gli cedono il passo. Si sente obbligato a ricattare chi lo implora. Ama chiudersi dietro le difese armate di una divisa screditata. Se incontra un ostacolo alza le spalle. Sa che non avrà mai le scarpe bucate. E’ così, mentre il declino segna impietoso le pieghe del suo volto, lui sorride e continua ad affondare gli artigli nella carne. Ha l’odore di una bestia imputridita. Ma non se lo sente.


I rubinetti del sogno

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Un agente di commercio mi guarda. Vuole vendermi un vecchio cassone a gasolio. Le altre auto sfrecciano nel controviale, la mia fuga si fa onirica. Travalica i muri di un borgo antico. E’ salmastro spruzzato sul lungomare, oltre siepi di ginepro. S’incupisce ai margini della città più estesa. Ingrassa febbrilmente gli echi di un passato alluvionale. E’ un ponte di mattoni troncato a metà. Ne discendo con una fune. Il torrente si copre di assi incollate. Una bolla vuota. Mi ci siedo per leggere i giornali, ma sono pochi. Il padrone del vapore li ha chiusi. I rubinetti del sogno.


La gamba prude

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Una vecchia brancica sulle foglie. Io mi bevo il suo cane, e capitombolo oltre la siepe. Il cielo buca grigio un alone bleu. Le rotaie mi succhiano il sangue, colano sudore sul viso. Lei mi guarda, non osa confessarlo. Si spoglia dentro per mostrarsi fuori. Io le scale le salgo, ci consumo una pena antica. Un pedale mi offende a notte. E’ lo scherno sdrucito di un finto compagno di sbronze. La salita ricomincia fra salsiccie e luci al neon. Abbiamo perduto, la città l’hanno conquistata loro. Noi restiamo agonizzanti, e del vuoto cogliamo gli occhi gonfi. La gamba prude.